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Lenti spesse ed obiettivi

 


 

Le lenti spesse

Questo paragrafo ha lo scopo di introdurre il concetto punti cardinali e di dare un'idea del tipo di errori che si compiono applicando alle lenti reali, le formule per le lenti sottili. Le lenti sottili vengono considerate prive di spessore, quindi si considera che il percorso dei raggi devia in corrispondenza del piano a cui viene idealmente ricondotta la lente.

 

Lente sottile

 

In realtà, il percorso di un raggio di luce è rettilineo all'interno di un mezzo omogeneo e deflette in corrispondenza del passaggio ad un altro mezzo con indice di rifrazione diverso. Quindi, un raggio di luce che colpisce una lente, devia al momento in cui penetra nel vetro e devia nuovamente quando riemerge.

 

Lente spessa

 

Si capisce ora come applicare a lenti reali le formule per le lenti sottili introduca un errore riconducibile alla distanza fra i nodi. Tuttavia, per dimensionamenti di massima di oggetti semplici (ad esempio se volete costruirvi un telescopio come quello di Galileo, in cui ci sono un paio di lenti e basta), questo errore è piccolo e lo si accetta in cambio di una semplificazione dei calcoli. Se serve maggior precisione, fate riferimento alle formule relative alle lenti spesse che si trovano sui testi di ottica.

 

 

I punti cardinali

I punti cardinali e gli associati piani cardinali sono un insieme di punti e piani in un sistema ottico che aiutano nell’analisi delle sue proprietà parassiali. Un raggio parassiale è un raggio che fa un angolo piccolo rispetto all’asse ottico e giace vicino all’asse per tutto il percorso nel sistema. Questo permette delle approssimazioni nelle formule, infatti il seno e la tangente di un angolo “piccolo” si approssimano con il valore dell’angolo. Che vuol dire piccolo? PI/6 è un angolo piccolo anche se vale 30°. Infatti sin (PI/6)=0,5 e PI/6=0,5 (limitandoci al primo decimale). Insomma, questa approssimazione ci è di notevole aiuto. L’analisi che si effettua mediante i punti cardinali si chiama ottica Gaussiana. I punti e i piani cardinali sono:

Ogni lente avrà due di ognuno di questi elementi, distinti in anteriore e posteriore a seconda di quale lato della lente si trovino. Questi punti e piani, insieme al diaframma, ai raggi principali ed ai raggi marginali, definiscono dimensione e posizione delle pupille di entrata ed uscita del sistema nonché altre proprietà come lunghezza focale ed ingrandimento.

F, F' punti focali anteriore e posteriore;
P, P' punti principali anteriore e posteriore;
V, V' Vertici delle superfici anteriore e posteriore.

BFL back focal length distanza tra il vertice dell’ultima lente e il fuoco posteriore

FFL Front Focal Length distanza tra il vertice della prima lente ed il fuoco anteriore

PF lunghezza focale effettiva anteriore (EFL)

P’F’ lunghezza focale posteriore (BFL)

La distanza PP’ si chiama iato.

 

I punti cardinali di una lente spessa in aria.

 

La distanza tra il vertice dell’ultima lente (quella verso il sensore) ed il piano del sensore si chiama backfocus (BF). Deve, ovviamente, essere maggiore del tiraggio, la distanza tra la flangia del corpo macchina su cui si innestano le ottiche ed il piano del sensore, altrimenti lo specchio reflex non può ribaltarsi.

I punti cardinali giacciono sull’asse ottico del sistema. Ogni punto è definito dall’effetto che il sistema ottico ha sui raggi che passano per quel punto (sempre in condizioni di approssimazione parassiale). Gli effetti del diaframma (inteso come apertura fisica) vengono ignorati. I raggi che non lo attraversano non vengono considerati nella discussione.

Punti e piani focali

Il punto focale anteriore, per definizione, ha la proprietà che ogni raggio passante per esso emerge dal sistema come raggio parallelo all’asse ottico. Il punto focale posteriore ha la proprietà che ogni raggio che entra nel sistema parallelo all’asse ottico viene focalizzato in modo da passare per esso.

F: Piano Focale anteriore

F1: Punto Focale anteriore
P: Piano Principale anteriore
P1: Punto Principale anteriore
N: Piano Nodale anteriore

N1: Punto Nodale anteriore
N': Piano Nodale posteriore
N2: Punto Nodale posteriore
P': Piano Principale posteriore
P2: Punto Principale posteriore
F': Piano Focale posteriore

F2: Punto Focale posteriore

 

 

 

La relazione di Gauss vale anche per una lente spessa e si scrive, facendo riferimento alla figura:

 

 

I piani focali anteriore e posteriore sono definiti come i piani perpendicolari all’asse ottico che passano attraverso il punto focale anteriore ed il punto focale posteriore.

Per oggetti a distanza finita, l’immagine si forma in un posto differente ma i raggi che lasciano l’oggetto paralleli l’uno all’altro si incrociano nel piano focale posteriore.

 

Raggi che lasciano l’oggetto con lo stesso angolo si incrociano nel piano focale posteriore.

 

Diaframma

Un diaframma posto nel piano focale posteriore si può usare per filtrare angolarmente i raggi poiché:

1.    Permette il passaggio ai soli raggi che sono emessi ad un angolo relativamente piccolo con l’asse ottico (un diaframma infinitamente piccolo farebbe passare i soli raggi emessi lungo l’asse ottico);

2.    Non importa da quale punto dell’oggetto arrivino i raggi, essi passeranno comunque attraverso il diaframma fintanto che l’angolo con cui sono emessi è sufficientemente piccolo.

Filtratura angolare con un diaframma nel piano focale posteriore.

Per funzionare in questo modo, il diaframma deve essere centrato rispetto all’asse ottico. Un diaframma sufficientemente piccolo, posto nel piano focale, rende l’ottica tele centrica.

Allo stesso modo possiamo filtrare i raggi all’uscita dell’ottica ponendo un diaframma nel piano focale anteriore.

L’importanza della telecentricità sta nella possibilità di far cadere i raggi di luce perpendicolarmente al sensore, specie nelle zone periferiche dello stesso. In questo modo si evita un fenomeno detto vignettatura del pixel (la luce incidente sul sensore ad angolo retto produce un segnale più forte di quella che lo colpisce con un angolo obliquo). Detto fenomeno si riduce/evita anche con un corretto dimensionamento delle microlenti poste sul sensore.

 

Punti e piani principali

I due piani principali hanno la proprietà che un raggio che esce dalla lente sembra aver attraversato il piano principale posteriore alla stessa distanza dall’asse con cui lo stesso raggio sembra aver attraversato il piano principale anteriore (guardando dalla lente anteriore).

Quindi, questo significa poter trattare la lente come se tutte le rifrazioni avvenissero nei piani principali. L’ingrandimento della lente è determinato dalla distanza dell’oggetto e dell’immagine dai piani principali anteriore e posteriore.

I punti principali sono quei punti dove i piani principali attraversano l’asse ottico.

Se il mezzo in cui è immerso il sistema ottico ha un indice di rifrazione pari a 1 (aria o vuoto), la distanza dei piani principali dai rispettivi punti focali è la lunghezza focale del sistema. Più in generale, la distanza tra i piani ed i rispettivi fuochi è pari alla lunghezza focale del sistema moltiplicata l’indice di rifrazione del mezzo in cui è immerso il sistema.

In una lente reale, i piani principali non passano necessariamente per il centro geometrico della lente e potrebbero addirittura giacere fuori di essa.

 

Vertici delle superfici

I vertici delle superfici sono i punti dove ogni superficie incrocia l’asse ottico. Sono importanti perché sono parametri misurabili fisicamente delle posizioni degli elementi ottici. Per descrivere fisicamente il sistema è importante conoscere la posizione dei punti cardinali rispetto ai vertici. Nella parte quarta vedremo lo schema del Sonnar 90mm di cui la Zeiss riporta tutti i dati nel manualetto che lo accompagna. Veramente ben fatto.

 

Punti nodali

 

N, N' I punti nodali anteriore e posteriore di una lente spessa.

I punti nodali anteriore e posteriore hanno la proprietà che un raggio mirato ad uno di essi sarà rifratto dalla lente e sembrerà arrivare dall’altro nodo e con lo stesso angolo rispetto all’asse ottico. I punti nodali fanno per gli angoli quello che i piani principali fanno per le distanze trasversali rispetto all’asse. Se il mezzo in cui è immerso il sistema ottico è lo stesso, allora i punti nodali anteriore e posteriore coincidono con i punti principali anteriore e posteriore.

Il concetto di punti nodali non è molto ben conosciuto in fotografia, almeno dai non addetti ai lavori. Si sente dire che i raggi di luce si intersecano nel punto nodale, che il diaframma si mette nel punto nodale, che il punto nodale è il punto su cui deve ruotare la fotocamera per le foto panoramiche per evitare errori di parallasse. Nulla di tutto ciò è vero. Nasce tutto da confusione circa i punti cardinali. Ad esempio, il punto di rotazione per le foto panoramiche è la pupilla d’entrata.

 

 

Pupilla d’entrata e pupilla d’uscita

Di tutti i raggi di luce che si dipartono da un certo punto del soggetto, quelli che effettivamente concorrono a formare l’immagine creano un cono di raggi di luce. Tale cono ha vertice sul punto del soggetto e ha come base la pupilla d’entrata. All’altro lato dell’ottica, i raggi luminosi escono in forma di cono la cui base è la pupilla d’uscita e il vertice è il punto sul piano immagine. Le pupille di entrata e di uscita hanno la stessa forma del diaframma e la loro dimensione è proporzionale a quella del diaframma. Da quanto detto si evince che possiamo tracciare i raggi luminosi che formano l’immagine senza conoscere la composizione del sistema di lenti ma solo posizione e dimensione delle pupille di entrata ed uscita.

Dalla pupilla di entrata dell'obiettivo (e non dal diametro della lente frontale) dipende la sua apertura relativa.

La pupilla d'entrata (quella vista dal davanti) e la pupilla d'uscita (quella vista da dietro) sono le due immagini del diaframma viste dai due lati dell'obiettivo.
Il punto di prospettiva della lente è esattamente il centro della pupilla d'entrata.
Attenzione: immagine del diaframma e non il diaframma vero e proprio.

La posizione e la dimensione delle pupille si trovano con delle semplici costruzioni geometriche (basate su raggi principali e marginali) che potete vedere nella figura seguente.

 

 

 

Per avere l'invarianza della prospettiva, nella foto panoramica occorre ruotare la fotocamera attorno alla pupilla d’entrata.

 

 

 

Alcuni posizionamenti del diaframma e relative pupille
 

Diaframma dietro la lente(la pupilla d’uscita coincide con il diaframma)

Diaframma davanti alla lente (la pupilla d’entrata coincide con il diaframma)

Diaframma tra le lenti

 

  

 

Un metodo facile facile per misurare la posizione della pupilla d'entrata.
 

Per misurare in modo semplice la pupilla di entrata di un obiettivo, si può procedere nel modo seguente:

 

ÿ       Si osserva il diaframma dell'obiettivo in esame mediante un obiettivo macro a tutta apertura mettendo accuratamente a fuoco;

ÿ       Di fianco all'obbiettivo si mette un oggetto piatto, ad esempio un righello;

ÿ       Lo si muove avanti/indietro fino a quando è a fuoco perfetto (NON toccate la messa a fuoco del macro);

ÿ       A quel punto è posizionato esattamente dov'è la pupilla d'entrata dell'ottica in esame.


 

 

 

Alcune formule delle lenti spesse

 

Per chi tra di voi volesse un assaggio della complessità di calcolo per le lenti spesse, ecco alcune formule.

 

  • A1 ed A2 sono i vertici dei due diottri sferici che costituiscono la lente spessa;

  • f1 ed f1’ sono le distanze focali primaria e secondaria del primo diottro;

  • f2’ ed f2” sono le distanze focali primaria e secondaria del secondo diottro;

  • f’ ed f” sono le distanze focali primaria e secondaria misurate dai piani principali;

  • P1, P2 e P sono i  poteri diottrici del primo diottro, del secondo diottro e della combinazione tra i due;

  • n, n’, n2 sono gli indici di rifrazione dei mezzi separati dalle superfici sferiche (diottri);

  • d distanza tra le lenti;

  • F punto focale;

  • H, H” piani principali.

 

 

 

Ovviamente dovete tener presente che in un obiettivo ci sono ben più di una lente e quindi le formule diventano qualcosa di veramente complesso.

 

Lenti telecentriche

 

Una lente telecentrica è una lente composta che ha la pupilla d’entrata o la pupilla d’uscita all’infinito. Questo significa che i raggi principali sono paralleli all’asse ottico, rispettivamente davanti o dietro il sistema ottico. Il modo più semplice di rendere tele centrica una lente è quello di porre il diaframma in uno dei punti focali della lente.

Una pupilla d’entrata all’infinito rende la lente telecentrica nello spazio dell’oggetto. Queste lenti sono usate nelle applicazioni di visione computerizzata applicata all’industria perché l’ingrandimento dell’immagine on dipende dalla distanza dell’oggetto o dalla sua posizione nel campo visivo.

Una pupilla d’uscita all’infinito rende la lente telecentrica nello spazio immagine. Queste lenti sono usate con i sensori d’immagine che non tollerano angoli di incidenza elevati, anche al fine di evitare vignettatura del pixel o di interferenza tra pixel vicini.

Se entrambe le pupille sono all’infinito, la lente è doppiamente telecentrica.

 

 

Cerchio di copertura e angolo di campo

 

Innanzitutto bisogna sgombrare il campo da equivoci derivanti dall'aver sempre ragionato in termini di piccolo (24x36 mm) o medio formato (6x6 cm, 4,5x6 cm, 6x9 cm…), cioè di formati fissi nei quali crediamo che esista un rapporto rigido tra focale, angolo di campo e formato.

Proviamo invece a parlare in termini di grande formato.

Il grande formato è in realtà una serie di formati diversi, che non comprendono solo i classici formati delle pellicole piane (dal 4x5"/10x12cm in su), ma anche formati inferiori, quando l'apparecchio a corpi mobili viene utilizzato con pellicola in rullo o con dorsi digitali.

Il fatto che lo stesso obiettivo possa essere usato su formati diversi ci aiuterà a svincolare tra loro parametri che credevamo fissi e strettamente interconnessi.

 

I concetti seguenti sono fondamentali.

L'immagine formata dall'obiettivo su una superficie posta in corrispondenza del piano focale è di forma circolare ed è chiamata circolo di illuminazione o cerchio d'immagine o cerchio di copertura; al suo interno vi è un altro circolo detto di buona definizione, dove l'immagine può essere interpretata correttamente. Questo circolo viene, ovviamente, sotteso dal cosiddetto angolo di buona definizione.

All'interno del circolo di buona definizione viene posto il materiale sensibile, pellicola o sensore che sia.

L'angolo di campo è una caratteristica fondamentale di ogni obiettivo. Il valore dell'angolo di campo nasce dal rapporto fra diametro del cerchio immagine e lunghezza focale. E' indipendente dal formato e dalla focale, ma viene deciso dal fabbricante e determinato dallo schema ottico dell'obiettivo. L'angolo di campo viene misurato con l’ottica messa a fuoco all'infinito.

Osserviamo l’immagine seguente, in cui , per semplicità, al posto di un obiettivo è stata riportata una lente semplice.

 

 

La lente focalizza i raggi luminosi ad una certa distanza dal punto nodale posteriore, la lunghezza focale. Nel caso di lente semplice, il punto nodale posteriore coincide con il centro C della lente. Quindi la lunghezza focale è il segmento Ch. Il cerchio immagine che si forma è il cono che ha per base la circonferenza di diametro AB e per altezza la lunghezza focale dell’obiettivo Ch. L’angolo al vertice  è l’angolo di campo dell’obiettivo. Come avete potuto notare, non abbiamo parlato di formati di pellicola o sensore, anzi, all’interno del cerchio immagine possiamo mettere elementi sensibili di svariate forme e dimensioni.

 

Abbiamo detto che l'angolo di campo è indipendente dalla focale e quindi obiettivi di focale diversa possono avere lo stesso angolo di campo. Ma allora cosa cambia? Cambia la dimensione del cerchio immagine proiettato sul piano focale.

Osserviamo la seconda immagine.

 
 
 
 
 

Due obiettivi di focale diversa, un Rodenstock Apo-Sironar-N 100 mm ed un Rodenstock Apo-Sironar-N 210 mm, hanno lo stesso angolo di campo (72°, non rappresentato in scala nel disegno). Poiché è diversa la focale, è diverso anche il diametro del cerchio di copertura, a parità di angolo di campo. Allora possiamo concludere che le focali maggiori, a parità di angolo di campo, hanno un cerchio di copertura maggiore. Immaginiamo ora di inserire un elemento sensibile all’interno del cerchio di copertura del 100 mm. Questo elemento sensibile sarà più piccolo di quello che si può inscrivere nel cerchio di copertura del 210 mm. Se questo elemento sensibile più piccolo, quello coperto dal 100 mm, lo mettiamo nel cerchio di copertura del 200 mm, avremo la possibilità di spostarlo nell’ambito del cerchio di copertura stesso: nasce la possibilità di eseguire  basculaggi e decentramenti. Per le due ottiche in esame abbiamo che il 100 mm copre fino al formato 6x9 cm, il 210 mm copre fino al 4x5” (10x12 cm).

 

Possiamo però anche avere il caso in cui a focali diverse corrisponda lo stesso angolo di campo. Osserviamo la terza immagine.

 

 

 

Lo Schneider Apo Symmar L 150 mm (angolo di campo 75°) e lo Schneider Super Symmar XL 150 mm (angolo di campo 105°) sono le due ottiche che prendiamo in esame. Stessa focale (150 mm), angoli di campo differenti (75° e 105°).  Che significa? Che i cerchi di copertura sono di dimensioni differenti, quindi possono coprire formati diversi. L’obiettivo caratterizzato da un cerchio di copertura (e quindi un angolo di campo) più grande, copre formati maggiori.

L'Apo Symmar (le specifiche ci danno un cerchio di copertura di 233 mm) può coprire il formato 4x5" (10x12 cm) con movimenti e il 5x7" (13x18 cm) senza movimenti; il Super Symmar (cerchio di copertura di 386 mm, sempre da specifiche) può coprire l’8x10" (20x25 cm) con movimenti.

 

 
Alcune ottiche per il grande formato
 



Avrete notato, spero, che non ho detto che un obiettivo funge da grandangolare o da normale o da tele, anzi da lunga focale, visto che teleobiettivo è uno schema ottico. Perché? Perché la distinzione va fatta tenendo conto della lunghezza focale (che è sempre quella per un obiettivo) rapportandola alla diagonale del formato in uso. Non si deve, cioè, definire una focale “normale” e poi definire grandangolari le focali inferiori e tele le focali superiori pretendendo che questa definizione sia valida per ogni formato.

Questo vuol dire che lo stesso obiettivo si comporta da grandangolare, normale o lunga focale in base al formato che in quel momento sta coprendo. Un obiettivo da 210 mm è normale nel formato 5x7"/13x18cm, è una lunga focale nel formato 6x9 cm e un grandangolare nel formato 8x10"/20x25cm.

 

 

 E sul digitale 35 mm o APS-C?

 

Analizziamo ora come possiamo determinare l’angolo di campo di un’ottica progettata per il 35 mm ed utilizzata con le nuove reflex digitali. Queste ottiche hanno un cerchio di copertura praticamente pari alla diagonale del formato 24 x 36 mm. Non sono cioè progettate per i movimenti tipici dei formati superiori e quindi ci sono alcune semplificazioni. In particolare, il nostro angolo di campo è geometricamente definibile dal vertice superiore di un triangolo isoscele che ha per base la diagonale del formato e per altezza la lunghezza focale.

L’insieme è graficamente visibile nello schema sottostante.

 

 

 

Se il sensore è più piccolo l’area inquadrata sarà minore, come se stessimo utilizzando un obiettivo di focale maggiore: ma le dimensioni dell’oggetto sul sensore non cambiano.

 

 
  
 Il "Gabbiano di Viale Marconi" su full frame ed APS-C
 

Andiamo ora ad osservare il Tamron 17-50/2.8 Di II VC. Il Di II nel nome indica che si tratta di un obiettivo progettato per lavorare solo su macchine con sensore APS-C. Quindi, pur potendolo montare su macchine full frame, il suo cerchio di copertura non è sufficiente a coprire tale fotogramma (24 x 36 mm) ma solo quello APS-C. Ne risulta una forte vignettatura, come visibile in figura.

 

 

Tamron 17-50 montato su una Canon EOS 5D

 

Il Canon EF 17-40 f/4 L ha una escursione focale analoga al Tamron ma è nato per le macchine a pellicola. Ha un cerchio di copertura maggiore, dovendo coprire il formato 24x36 mm. Montandolo su una reflex digitale APS-C, che cosa succede?

Se, mantenendo la stessa lunghezza focale, montiamo lo stesso obiettivo su una fotocamera con un sensore più piccolo del 24x36 mm, l'angolo inquadrato diminuisce, perché diminuisce la lunghezza della diagonale del fotogramma: sto ritagliando una parte dell’immagine originale. Non mi cambia l’angolo di campo dell’ottica.

 

 

Fabbricazione

Il primo passaggio per la progettazione di ogni lente è la scelta del materiale, che può essere il vetro ottico (normale, Crown, Flint ecc), un cristallo minerale come il quarzo, la fluorite o il berillo, o un materiale plastico. La scelta è funzione della destinazione d'uso, dello spettro elettromagnetico trattato, della robustezza e deformabilità meccanica, della riduzione delle aberrazioni e del costo finale. Il costo di una lente sale notevolmente con l'aumentare della qualità ottica, dovuta alla purezza dei materiali e alle particolari lavorazioni della superficie.

Lenti di plastica economiche possono essere semplicemente stampate, mentre lenti destinate a strumenti ottici di qualità vengono prodotte per successivi passaggi di molatura e lucidatura fino a raggiungere la curvatura necessaria. La lucidatura viene effettuata con polveri abrasive a bagno di acqua o balsamo. Per raggiungere gradi di lucidatura molto elevati si usa anche la polvere di diamante.

Al termine la lente può essere rivestita con un materiale (coating) allo scopo di ottenere alcune particolari caratteristiche, come l'antiriflesso, l'antigraffio, l'antiappannante, ecc.

I materiali usati nei rivestimenti antiriflesso hanno un indice di rifrazione intermedio tra il vetro e l'aria in modo da ridurre le perdite di luminosità nel passaggio da una lente ad un’altra.

 

Il vetro ottico

Il vetro ottico viene preparato appositamente per prodotti ottici di precisione. Viene fornito con caratteristiche di rifrazione e dispersione ben precise (alla sesta cifra decimale) e con richieste stringenti riguardo la trasparenza, la mancanza di bolle ed altri difetti. Il vetro ottico si classifica in base alla sua composizione e alla sua costante ottica, il numero di Abbe. Oggi come oggi, ci sono più di 250 tipi di vetro ottico. Vetro con numero di Abbe minore o uguale a 50 è detto Flint (F); se invece il numero di Abbe è 55 o più, allora è detto Crown (K). Esistono poi ulteriori classificazioni dei vetri che qui trascuriamo.

 

Il numero di Abbe

E’ un numero che indica la dispersione del vetro ottico e si indica con la lettera greca n (ni). Viene anche detta costante ottica. Il numero di Abbe si calcola con la seguente formula in cui vengono inseriti gli indici di rifrazione del vetro per tre linee di Fraunhofer, F (blu), D (giallo) e C (rosso):

 

 

  Linee di Fraunhofer

Sono le linee di assorbimento scoperte da Fraunhofer, un fisico tedesco, nel 1814. Descrivono l’assorbimento dello spettro presente nella luce del sole quando attraversa vari gas. Poiché ogni linea si trova ad una lunghezza d’onda (colore) ben precisa, le linee di Fraunhofer vengono utilizzate per descrivere le caratteristiche del vetro ottico. L’indice di rifrazione del vetro ottico si misura basandosi su nove lunghezze d’onda scelte tra le linee di Fraunhofer. Anche il calcolo della correzione delle aberrazioni cromatiche si basa su queste lunghezze d’onda.

 

 

Linea spettrale

Lunghezza d’onda (nm)

Colore

I

365,0

Ultravioletto

H

404,7

Violetto

G

435,8

Blu-violetto

F

486,1

Blu

e

546,1

Verde

D

587,6

Giallo

C

656,3

Rosso

R

706,5

Rosso

T

1014

Infrarosso

 

Nota: 1 nm = 10-6mm

 

 

Fluorite

La fluorite ha indici di rifrazione e dispersione estremamente bassi ed ha anche altre caratteristiche che le permettono di correggere molto bene le aberrazioni cromatiche in combinazione con il vetro ottico. Questo fatto è noto fin dal 1880 e la fluorite veniva utilizzata nelle ottiche apocromatiche dei microscopi. Tuttavia la fluorite esiste solo in pezzi piccoli e perciò non si poteva usare praticamente nelle ottiche fotografiche. Nel 1968 Canon introdusse un nuovo sistema per fabbricare grandi cristalli di fluorite artificiali, aprendo la porta all’utilizzo di questo materiale negli obiettivi fotografici.

 

Lenti UD

UD significa “ultra-low dispersion”, cioè dispersione ultra bassa. Identifica una lente fatta di uno speciale vetro ottico con caratteristiche simili alla fluorite. Le lenti UD sono utilizzate nei super teleobiettivi per correggere le aberrazioni cromatiche. La similitudine con la fluorite arriva al punto che si possono utilizzare due lenti UD al posto di una in fluorite. Ovviamente questo introduce ulteriori variabili nello schema ottico.

 

Vetro senza piombo

E’ un vetro ottico in cui non si utilizza il piombo per innalzare il potere rifrattivo del vetro. Al suo posto si usa il titanio. La scelta è stata fatta per un maggio rispetto dell’ambiente perché il piombo poteva essere rilasciato in atmosfera durante le fasi di molatura e smerigliatura del vetro. Anche questo vetro è un vanto di Canon.

 

Lente di Fresnel

E’ una lente convergente formata dividendo finemente la superficie di una lente convessa in una serie di anelli ottici concentrici e poi combinandoli per ridurre lo spessore della lente mantenendo la sua funzione di lente convessa.

E’ utilizzata, ad esempio, nei flash o nei fari.

 

Lente asferica

Gli obiettivi sono di solito costituiti da molte lenti, tutte aventi superfici sferiche. Questo rende difficile correggere le aberrazioni sferiche nelle ottiche a grande apertura e la distorsione nei super grandangolari. Una lente speciale, con una superficie curvata in maniera da correggere questi difetti (non a curvatura sferica, quindi, ma a curvatura libera) si chiama lente asferica. Anche queste lenti erano conosciute da tempo, in linea di principio, ma sono sempre state di difficile fabbricazione. La prima ottica ad incorporare una lente asferica di grande diametro è stato il Canon FD 55mm f/1.2AL, presentato nel marzo 1971.

 

Lente d’aria

Lo spazio d’aria tra le lenti che compongono un obiettivo può essere visto come le lenti di vetro. In fondo presenta un indice di rifrazione, proprio come le lenti in vetro, solo che in questo caso vale 1, l’indice di rifrazione dell’aria. Si chiama lente d’aria lo spazio d’aria tra le lenti disegnato fin dall’inizio della progettazione con l’idea di trattarlo come una lente di vetro. Poiché la rifrazione di una lente d’aria è opposta a quella di una lente di vetro, una forma convessa agisce come una lente concava ed una forma concava agisce come una lente convessa. Questo principio fu introdotto nel 1898 da Emil von Hoegh che lavorava per la Goerz.

 

 

Il trattamento antiriflesso (multicoating)

Quando un raggio di luce colpisce una lente, esso ne viene in parte rifratto e in parte riflesso. Questa riflessione causa in primo luogo una diminuzione della quantità di energia trasmessa attraverso la lente; poi una perdita di nitidezza dovuta ai riflessi interni al sistema ottico. Quanto più questo è complesso (cioè quanto maggiore è il numero di lenti) tanto maggiori si rivelano questi rischi. Avviene così che all'interno dell'obiettivo viaggia un eccesso di luce inutile alla formazione dell'immagine, ma capace di abbassarne notevolmente il contrasto. E' per questo che gli obiettivi zoom, caratterizzati da un elevato numero di elementi, sono più soggetti al fenomeno.

Indicando con a l'indice di rifrazione dell'aria e con v l'indice di rifrazione del vetro, possiamo quantificare la perdita percentuale di energia luminosa (P) applicando la seguente formula:

 

Ad esempio, una sola lente con indice di rifrazione pari a 1,5, operante nell'aria  (indice di rifrazione pari a 1,0003), causerà una perdita di energia del 4%.

Si capisce come un sistema composto da molte lenti giunga a ridurre a livelli non più tollerabili la quantità di luce che giunge al piano focale.

Tuttavia, depositando su ogni lente uno strato chimico avente un indice di rifrazione intermedio fra quello dell'aria e quello del vetro, si otterrà, applicando la formula prima considerata, una diminuzione della perdita percentuale di luce. Se ad esempio lo strato antiriflesso avesse un indice di rifrazione pari a 1,25, avremmo come risultato dell'equazione una perdita percentuale di energia pari a 1,23 nel passaggio dall'aria allo strato antiriflesso, e pari a 0,83 nel passaggio da questo al vetro. Sommando i due risultati avremmo una perdita del 2,06%, che è poco più della metà del valore ottenuto senza trattamento antiriflesso. Aumentando il numero degli strati si diminuisce proporzionalmente la perdita di energia e contestualmente si "bloccano" le riflessioni parassite.

 

 

Mezzo

Indice

Aria

1.0003

Acqua

1.33

Quarzo fuso

1.46

Glicerina

1.47

Vetro crown

1.51

Vetro crown al bario

1.57

Vetro flint

1.60

Zaffiro  

1.76

Diamante

2.42

 

Indici di rifrazione di alcuni mezzi



La storia dei trattamenti antiriflessi passa dai primi esperimenti di Taylor alle scoperte di Smakula ed altri per arrivare ai modernissimi rivestimenti dell'ultima generazione. La Schott, nota azienda produttrice di vetro ottico, sperimentò rivestimenti multistrato già al tempo della seconda guerra mondiale guerra. Tuttavia fu soltanto ad inizio degli anni '70 che il trattamento antiriflesso trovò una diffusione di massa, migliorando drasticamente la resa degli obiettivi, specialmente in avverse condizioni di luce.

La Asahi Pentax ha avuto il ruolo di pioniere in questo campo, grazie al suo Super Multi Coating (SMC). Questa tecnologia fu acquisita "chiavi in mano" da due aziende specializzate nel settore, una americana e l’altra tedesca che avevano sviluppato un sistema antiriflessi multistrato per dispositivi ottici militari. Il sistema era costituito da sei strati alternati di spessore differente, tre di ossido di Zirconio e tre di fluoruro di Magnesio.

Al sistema originale, Pentax aggiunse uno strato indurente superficiale, il settimo; sembra che anche un materiale di cui non conosco le caratteristiche venisse utilizzato per fissare meglio il trattamento alla lente. In questo modo si superavano i problemi di fissaggio sulla lente e di resistenza meccanica del trattamento, evitando eventuali danneggiamenti durante la pulizia delle lenti.

 

  Indurente
  Fluoruro di Magnesio
  Ossido di Zirconio
  Fluoruro di Magnesio
  Ossido di Zirconio
  Fluoruro di Magnesio
  Ossido di Zirconio
  Fissatore
  Lente

I vari strati del Super Multi Coating

L’applicazione del trattamento antiriflesso si ottiene mediante evaporazione a caldo di fluoruri che vengono fatti depositare sulla lente. Questo strato di materiale crea un’interferenza che riduce le perdite di luminosità, come detto in precedenza. Tuttavia agisce solo su lunghezze d’onda che sono quattro volte lo spessore dello strato. Ecco il motivo dei sei strati Pentax: ogni coppia agiva su un colore dello spettro primario (RGB). Gli antiriflesso a singolo strato, invece, agivano solo su una porzione dello spettro.

Per curiosità, andiamo a vedere lo spessore dei vari strati o meglio delle coppie di strati. Scegliamo le tre bande dello spettro visibile su cui agire:

Colore

Lunghezza d’onda

Spessore strato (1/4 lunghezza d’onda)

blu

430 nm

107,5 nm

verde

550 nm

137,5 nm

rosso

660 nm

165 nm

Veramente sottili, non c’è che dire!

Questo rivestimento fu applicato per la prima volta al Takumar 50mm f/1,4 con passo a vite. Entrai in possesso di uno di questi esemplari nel 1977, grazie a mio padre. Dopo anni di utilizzo, viene ancora oggi utilizzato da mio zio su un corpo Ricoh Singlex TLS ed il trattamento antiriflesso è ancora integro. Una bella riuscita, direi. In seguito il trattamento anti rilessi di Pentax evolse verso il SMC (Super Multi Coating). A questo punto tutti i costruttori si adeguarono nel fornire un trattamento antiriflessi multistrato ai loro obiettivi.

La Leitz invece si è comportata in maniera diversa. Le ottiche Leitz hanno sempre fatto uso di materiali ad elevato indice di rifrazione, intrinsecamente meno proni ai riflessi. Per questo motivo la Leitz non ha applicato a tappeto il trattamento antiriflesso ma solo se lo richiedevano specifiche esigenze progettuali.
Una curiosità: la lente frontale di un obiettivo con rivestimento a strati multipli, mostra una particolare colorazione, un riflesso cromatico che si è rivelato nel tempo un grande strumento di marketing, utilizzato in gran quantità sulle brochure delle varie case.

 

Conclusione

 

Abbiamo concluso la seconda parte di questa trattazione, la più tosta. Ora la strada è in discesa. Vedremo le aberrazioni e, infine, studieremo la storia degli schemi ottici. Alla prossima

 


©2010 Aristide Torrelli